Il tempo passa, inesorabilmente. Ma se si dice spesso si stava meglio quando si stava peggio vuol dire che questi ritmi vertiginosi non sono per forza una cosa buona. Durante la prima pandemia, ci siamo ritrovati a vedere laghi rinsecchiti tornati limpidi e rigogliosi senza piogge, pesci tropicali in mari “normali”, la Natura che si riappropriava di suoi spazi. Meraviglia nella tragedia.
La recente morte del mio “certificato di garanzia” giornalistico Alfio Tofanelli mi ha riportato con la memoria nei primi anni ottanta alla frequentazione della Coppa Carnevale, che siccome veniva organizzata tra febbraio e marzo veniva così chiamata ma era in realtà il Torneo di Viareggio, che equivaleva al mondiale di calcio giovanile nel mondo.
Era un brulicare di osservatori, direttori sportivi che senza smartphone ma con un quadernino magari il taccuino piccolo degli hotel che trovi sul comodino con penna o matita segnavano furtivamente il numero di maglia del ragazzo su cui prendere informazioni.
La vigilia del Viareggio, senza social, era un tam tam di voci: quest’anno arrivano Flamengo e Boca Juniors, Bayern Monaco e Liverpool, Rapid Vienna e Galatasaray la voce corsa di bocca in bocca e siccome le frontiere erano state appena riaperte voleva dire puntare i giovani di maggiore interesse.
Nella mia mente si staglia nitida la figura di Vatta, l’allenatore del settore giovanile del Torino che sfornava talenti in serie, non solo Lentini ma Venturin, Bobo Vieri, Fuser, Comi, Dino Baggio eccetera, che senza fare proclami allevava ragazzi che diventavano dei girasole, sempre illuminati dalla luce della tecnica individuale, nel rigoroso quasi maniacale rispetto della persona come macchina su cui lavorare, attenti alle indicazioni tattiche per fare di una questione di piedi una sorta di spartito da eseguire. Quelli che venivano definiti maestri silenziosi. Il calcio giovanile in Italia era un ramo d’azienda, per alcune società quello da curare per poter sopravvivere. Tutto questo preambolo non è un “paraustiello” per dire che la crisi del calcio italiano che il presidente federale Gravina (bindatissimo per effetto dei voti delle componenti ) deve assolutamente riformare ma con nettezza, senza cedere alla tentazione di non scontentare ma soprattutto invece di premiare la qualità, è per la ennesima volta fuori dai mondiali perché in Italia non c’è più cura per il made in Italy. Ed è una colpa gravissima. Abbiamo l’Università dell’allenatore e del direttore sportivo, del manager e del marketing, del preparatore atletico e del fisioterapista a Coverciano ma se tornassimo ad andare a vedere il lavoro dei settori giovanili delle società scopriremmo che il 35% degli italiani trova posto in squadra nelle varie Primavera e giù a scendere mentre a salire ecco che uno su mille e non è una canzone ce la fa.
Ci sono società come il Napoli che hanno da anni promesso la Scugnizzeria, tentativo partenopeo di tener testa alla Cantera del Barcellona, ma le cui squadre girovagano per piccoli campi di provincia per allenarsi, giocare, portando dietro borsoni di materiale sanitario, palloni Etc senza la struttura necessaria. Parliamo di un grande club che da anni è nelle posizioni di vertice del massimo campionato italiano. Non è una colpa, sia chiaro, o anche se lo è lo si deve attribuire alla mentalità. Investire su un ragazzo che può anche non riuscire a diventare calciatore professionista costa soldi, e le piccole scuole-calcio che pure non potrebbero pretendere la buonuscita salvo quella prevista dai regolamenti non di rado prendono per la gola i fin troppo ambiziosi genitori chiedendo un supplemento per il nulla a pretendere. Un gioco al veleno sulla pelle di ragazzini che vorrebbero solo provare a sognare. E allora meglio spedire occhi esperti a dragare mercati africani, dell’est europeo, sudamericano. E ti ritrovi con una nazione come l’Italia, 4 volte campione del mondo, fuori dalla World Cup. Maestro Vatta, se potessi so cosa mi risponderesti ma mi sembra di sentirti…
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