Da ricchi scemi (non era vero) a piranha del pallone (ed è vero)


Tra i grandi club che non hanno segretamente sancito il tradimento alla Uefa, perché tale lo considera il presidente, l’avvocato sloveno Ceferin, ce ne sono due le cui storie sono emblematiche: Bayern Monaco e Paris Saint Germain. Il primo racchiude la potenza tedesca, espressione di un popolo predone ma cui certo non manca il coraggio né l’operatività. In un baleno da due nazioni a una, spostamento di capitale da Bonn a Berlino: altri avrebbero impiegato una vita, i tedeschi no. La proposta dei cospiratori è caduta nel vuoto e soprattutto respinto in maniera secca. Il PSG è di proprietà straniera: il Qatar ne detiene il pacchetto di maggioranza e dunque alla vigilia di un mondiale già tormentato per gli stadi al coperto in novembre sarebbe stato troppo accoltellare la Uefa alle spalle. 

Ora Florentino Perez presidente del Real Madrid dice che non è ancora finita, che la JP Morgan che ha quasi chiesto scusa in realtà non ha mollato la presa. Ma indubbiamente si batte in ritirata mentre Ceferin minaccia multe salatissime per Juventus, Real Madrid e Barcellona. In Inghilterra si è ripreso a giocare dopo che le tifoserie un tempo vituperate per gesti violenti hanno vinto la partita del cuore dicendo NO al calcio dei soli affari. 

Ma non chiamiamola vittoria del popolo, sarebbe una bugia per coprire un tema che resta sul tavolo: va affrontato, non nascosto. È vero, la spallata è venuta dall’Inghilterra, dagli inventori del gioco e delle sue regole: la rivoluzione non ha mai abitato lì, chi aveva accettato il ruolo di fondatore del club dei super-ricchi che avrebbe dovuto stravolgere il calcio non ha retto l’urto arrivato da quei cartelli scritti con i pennarelli su cartoni da imballo. Era anche quello un richiamo alla tradizione, ai tempi in cui il football era pratica degli scaricatori dei porti, mentre i Signori trovavano più eccitante inseguire una povera volpe nelle loro tenute di campagna. Ma la suggestione romantica si ferma qui: per ora è stato bocciato il progetto, l’idea di sovvertire il mondo in cambio di finanziamenti che non avrebbero dovuto combattere con il rischio di impresa. Esattamente l’opposto del business al quale è stato ispirata (a parole) la gestione del gioco più bello del mondo. Adesso i rivoluzionari chiedono al governo di trattare, l’invito va raccolto, senza cedere alla tentazione delle punizioni minacciate non appena la dichiarazione che annunciava la nascita della Superlega venne diffusa, all’ora delle streghe. Occorre trattare: i grandi bacini sono il volano per l’intero sistema. Ma Sassuolo e Atalanta sono necessari alla Juventus, molto più di quanto non dicano cifre che non potranno mai essere paragonabili.

Ora comincia l’era della rifondazione; dobbiamo partecipare tutti: dai padroni del vapore a chi confeziona le le regole, dai finanziatori di grandissimi progetti a chi materialmente consegna i propri risparmi per acquistare biglietti da stadio o abbonamenti per trasformare il vecchio divano di casa in meravigliosa poltrona virtuale che ci proietta attraverso lo schermo in luoghi da leggenda. E un ruolo tocca anche a noi che abbiamo scelto di raccontarlo questo mondo, attraverso le nostre parole. Scritte o, magari, urlate, ma sempre ispirate alla promessa (tacita) fatta ai destinatari del nostro lavoro: raccontare la verità, anche quando è scomoda. Poi ci sono loro, gli attori: i calciatori che tutto possono. Molti hanno subito preso le distanze dalla Superlega, il Grande Sogno che avrebbe ammazzato i piccoli sogni di grandezza. Ma i piccoli sogni non tollerano ingaggi da pagare che non siano giustificati dalle entrate dei club. Non esiste alcuna garanzia che il calciatore più pagato ti assicuri lo scudetto, esiste invece la certezza che i bilanci in rosso ti costringono a rinunce inevitabili. Anche questo è un affare di cuore che nessuna Superlega avrebbe potuto evitare.

In tempi di elezioni per rinnovi di federazioni, organismi, enti di promozione e ancora ancora ancora viene in mente una frase di un indimenticato presidente del Coni che per esaltare il suo mondo e denigrare quello delle spese folli definì i presidenti di calcio “i ricchi scemi”. Che per la verità non sono mai stati tali. Ma piranha affamati di soldi così neppure mai. 

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