Re Carlo, don Carlo, Sir Carlo: il vincente stritolato dal metodo azzurro

Un po’ Liedholm un po’ Sacchi, molto se stesso. E’ curioso che il più vincente venga chiamato con un vezzeggiativo: Carletto. E’ così perché da ragazzo esprimeva doti da leader con faccione giovanile e quindi ecco il nome modellato. Carlino avrebbe espresso striminzito potere fisico men che mai personalità, Carlone l’ingordigia di uno sempre in lite con la bilancia. Ancelotti è l’allenatore dei record: quinto scudetto vinto nei tornei più importanti in Europa, quarta Coppa dei Campioni a suggello di un’annata strepitosa. Destino amaro per il presidente ADL che pure ebbe la brillante idea di convincerlo ad accettare presentando il progetto fantasma come fosse possibile e realizzabile.

C’è caduto anche Carletto come Rafa Benitez, l’uomo della svolta coi suoi acquisti di qualità e personalità da Reina ad Albiol, da Callejon a Mertens. Ma dopo aver vissuto bruciante sulla propria pelle l’inganno di Mascherano anche Benitez capì che la cantéra aveva un altro accento e tirò via la stagione prima di salutare la compagnia prendendo il primo volo dopo la fine del campionato e in tempo per dire ad Emery stai bene in Spagna, rendendo inutile il blitz di ADL e dell’uomo cassaforte Chiavelli per assicurarsi le prestazioni del tecnico capace di primeggiare in Europa col Siviglia.

Tranne Reja, che fa fatica a litigare, il Napoli società si è lasciato di brutto con tutti allenatori meritevoli: Mazzarri, Benitez come detto, Sarri, Ancelotti, Gattuso. Se ho dimenticato qualcuno, nessun problema. Ho vissuto bordo campo dopo successi, tipo le finali di Coppa Italia a Roma gestione-Mazzarri, in cui ho sentito chiaramente il gruppo chiedere a gran voce di essere lasciato da solo sul campo a festeggiare. Senza…intrusi ancorchè profumatamente pagatori.

Ricorderete che anche l’odiatissimo Higuain indicò con l’indice in tribuna chi era il colpevole di quel clima da guerriglia vocale: tutti contro uno, lui. Ed aveva in fondo ragione perché se uno fissa una clausola di 94 milioni di euro per cedere significa che vuole vendere, come aveva fatto il Napoli di ADL con Cavani e Lavezzi, per esempio.

Ora non si sa se accadrà anche con Koulibaly, Fabian Ruiz ma l’importante è offrire in pasto all’opinione pubblica i colpevoli. In questo ultimo caso l’ennesimo giornalista. Tutti buoni se serve far sapere che c’è il calendario o lo scooter brandizzato o ancora meglio gli accordi commerciali per il romitaggio bigamo tra Trentino e Abruzzo (in quest’ultimo caso le polemiche già al veleno da parte abruzzese potrebbero avere risvolti fastidiosi) altrimenti dagli all’untore.

Già, Ancelotti: a Napoli era diventato uno zimbello perché il figlio – lo stesso cher suggerisce cose a Benzema o Casimiro – era l’inciampo, il genero nello staff un sopportato. E quando la squadra si oppose al diktat presidenziale di un lungo punitivo ritiro Carletto per la prima volta ha capito cosa significa essere soli. Il licenziamento era la soluzione più comoda per giustificare la incapacità di una società patriarcale in cui yes man terrorizzati da chissà quali intemperie verbali sono meno che comparse. Anche per non aiutare Gattuso con acquisti giusti furono fatte circolare ad altre voci sulla possibile cecità del bravo tecnico calabrese o peggio depressione per la morte della sorella. Un’orchestrina di bassa lega a comando.

Poi ci si chiede perché non si vince. Inutile dire di Zanetti e Marotta che nell’Inter sono come i Capitani Reggenti a San Marino o Maldini è la guardia svizzera al Milan. Senza strutture non si vince ma si aspira a farlo. Il che poi brucia. E non deve meravigliare se nonostante i campionati di riguardo alle spalle l’indice di gradimento è pari alla soglia minima. Il calcio è numeri ma soprattutto equilibrio, strategia periferica, capacità di relazioni e anche a Palazzo Reale a Napoli pochi giorni fa pure i personaggi sugli arazzi si scambiavano sguardi increduli.

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